Ambientazione

Il Gioco del Ponte

È uno dei momenti di più intensa espressione del senso d’appartenenza dei pisani alla propria città; e, insieme, una rievocazione storica fra le più suggestive del panorama italiano: con un corteo da oltre 800 figuranti (vestiti con preziosi costumi) e 41 cavalli, che si snoda lungo lo scenario unico dei lungarni. Per non dire dalla storia della manifestazione: che ha alle proprie spalle una tradizione lunga di secoli, le cui origini si collocano in quel territorio, sfumato e ricco di fascino, situato a metà strada fra la storia e la leggenda.

Una delle ipotesi riguardanti la genesi del Gioco ne individua il “precedente” immediato nel combattimento definito “del Mazzascudo”: di fatto, un effettivo scontro armato tra due fazioni (quella del Gallo e quella della Gazza, a loro suddivise volta in squadre), i cui militi si proteggevano il capo indossando un elmo.

Gli eserciti nemici si sfidavano nell’odierna piazza dei Cavalieri; e la regola d’ingaggio prevedeva che ciascun soldato attaccasse con una mazza, parando il colpo avvalendosi di uno scudo: formula dalla quale, come pare evidente, sarebbe nato il nome del torneo. La palma della vittoria veniva assegnata allo schieramento che fosse capace di sgominare i nemici, cacciandoli dal campo di battaglia. 

Non tutti gli osservatori peraltro concordano (anzi, il dibattito è vivo e acceso), in riferimento al possibile rapporto di derivazione tra Mazzascudo e Gioco del Ponte: il quale, con tale denominazione, inizia a disputarsi con regolarità sicuramente a partire solo dal 1560.

Nel XVII secolo il Gioco usava svolgersi una volta l’anno, il 17 gennaio (ricorrenza di Sant’Antonio Abate), fino al momento in cui venne introdotta la consuetudine di raddoppiare l’appuntamento: il primo round (confermato nella giornata del 17 gennaio) era detto Battagliaccia e veniva considerato una sorta di prova; il secondo, chiamato Battaglia Generale, si disputava in data da stabilire di volta in volta e solitamente veniva a costituire uno spettacolo speciale, allestito in onore di ospiti illustri in visita a Pisa. Il confronto fra le schiere delle due Parti – Tramontana e Mezzogiorno – prevedeva un tempo massimo di durata: all’inizio il limite era fissato in due ore; successivamente il tetto venne abbassato fino a 45 minuti. Quanto alla formula, ancora era quella di un “corpo a corpo”; i combattenti (protetti da una specie di casco chiamato morione, oltre che da imbottiture in feltro) si affrontavano brandendo il targone (oggi esibito in parata): uno scudo di legno a forma di foglia di ulivo, con la parte larga per difendersi e la punta per attaccare. 

Una “missione” particolare era poi affidata ai “celatini”, presenti in numero di 4 o 6 per squadra e così chiamati perché indossavano una celata, ovvero un elmo senza visiera: di fatto una sorta di “guastatori”, avevano l’incarico di cercare di afferrare gli avversari per le gambe e di farli prigionieri. Un segno, questo, dei tempi: è nel Seicento che il Gioco, improntato inizialmente a un’idea dello scontro sostanzialmente cavalleresca, assume invece un respiro più agonistico; gradualmente, insomma, emerge, e poi finisce per imporsi, un “taglio” di tipo ludico e competitivo.

È uno dei momenti di più intensa espressione del senso d’appartenenza dei pisani alla propria città; e, insieme, una rievocazione storica fra le più suggestive del panorama italiano: con un corteo da oltre 800 figuranti (vestiti con preziosi costumi) e 41 cavalli, che si snoda lungo lo scenario unico dei lungarni. Per non dire dalla storia della manifestazione: che ha alle proprie spalle una tradizione lunga di secoli, le cui origini si collocano in quel territorio, sfumato e ricco di fascino, situato a metà strada fra la storia e la leggenda.

Una delle ipotesi riguardanti la genesi del Gioco ne individua il “precedente” immediato nel combattimento definito “del Mazzascudo”: di fatto, un effettivo scontro armato tra due fazioni (quella del Gallo e quella della Gazza, a loro suddivise volta in squadre), i cui militi si proteggevano il capo indossando un elmo.

Gli eserciti nemici si sfidavano nell’odierna piazza dei Cavalieri; e la regola d’ingaggio prevedeva che ciascun soldato attaccasse con una mazza, parando il colpo avvalendosi di uno scudo: formula dalla quale, come pare evidente, sarebbe nato il nome del torneo. La palma della vittoria veniva assegnata allo schieramento che fosse capace di sgominare i nemici, cacciandoli dal campo di battaglia. 

Non tutti gli osservatori peraltro concordano (anzi, il dibattito è vivo e acceso), in riferimento al possibile rapporto di derivazione tra Mazzascudo e Gioco del Ponte: il quale, con tale denominazione, inizia a disputarsi con regolarità sicuramente a partire solo dal 1560.

Per decenni e decenni la contesa si svolse con regolarità; poi, però, la rivalità tra Mezzogiorno e Tramontana iniziò a degenerare: nel 1785 il granduca Pietro Leopoldo di Toscana fu indotto a decretare la fine del Gioco: che, dopo di allora, venne disputato (in via eccezionale) unicamente nel 1807, salvo ricomparire solo più di un secolo dopo, nel 1935. Né si tratta di un “rientro in scena” duraturo: dopo pochi anni, ecco la sospensione imposta a causa dallo scoppio della seconda guerra mondiale; in soldoni, non si torna a incrociare le armi se non nel 1947, quando lo stadio cittadino, l’Arena Garibaldi, ospita una sorta di prova in vista della ripresa vera e propria: che avverrà nel 1950 sul nuovo ponte di Mezzo (l’antico era rimasto distrutto sotto le bombe), inaugurato per l’occasione al termine delle opere di ricostruzione. E’ proprio in tale circostanza che si decide di rinunciare allo scontro frontale fra combattenti: ai targoni (giudicati pericolosi) subentra il carrello scorrevole su rotaie, segnando l’avvento della formula ancor oggi utilizzata e ripresa fin dal 1982, anno d’inizio di quella che viene definita l’era contemporanea del Gioco del Ponte.

I nani

Nella letteratura fantasy, la razza nanica – caratterizzata, oltre che dalla bassa statura e dalla corporatura robusta, dall’essere vocata alla attività mineraria, alla produzione di armi e al combattimento – discende da tre antichi dei: Grungni, sua moglie Valaya e il fratello di lui, Grimnir. E’ dal primo che l’infaticabile popolo di costruttori apprende appunto l’arte di estrarre gemme preziose e metalli, nonché la tecnica di lavorarli ricavandone strumenti, per la manifattura o per la battaglia. Valaya invece insegna loro come trasformare pericolanti caverne in dimore sicure; e, insieme, il senso della comunità e della solidarietà sociale. Grimnir, infine, è il loro primo generale, dal quale ricevono la preparazione al duello, alla battaglia e la conoscenza delle strategie militari.

Sotto il profilo dei rapporti con le altre stirpi, l’alleanza più anticamente stipulata è quella con gli elfi, insieme ai quali affrontano le prime guerre contro le forze del caos, per poi instaurare con loro, nella successiva “età dell’oro”, solidi e prosperi traffici commerciali. Purtroppo, si tratta di un’amicizia destinata ad andare in rovina: il seme del male, impiantato dallo stesso caos tra gli elfi, porta alla nascita, al loro interno, degli “scuri”, i quali prendono ad attaccare e depredare gli insediamenti dei nani, senza che questi ultimi riescano a distinguerli da quelli rimasti pacifici. Questo equivoco di fondo porta al conflitto aperto tra le due razze, al quale – anche dopo la sua conclusione – fa seguito un mai sanato deterioramento delle relazioni. Nemici storici del popolo dei minatori sono poi gli orchi (mostri antropomorfi dalla pelle verde), i goblin (anch’essi dalla pelle verde, ma più piccoli) e gli skaven (mutanti uomini ratto). E proprio in conseguenza del perenne stato di guerra contro le loro orde, i nani stabiliscono la più duratura delle loro amicizie: quella con gli umani.

Per comunicare, tra loro e con gli altri popoli, i nani si affidano alle “rune”: alfabeto realmente esistito (dunque non un’invenzione fantasy) e utilizzato anticamente dalle ancestrali etnie germaniche (come Vichinghi, Angli, Juti e Goti), ma risalente – secondo gli studiosi – probabilmente alla scrittura Etrusca: e quindi avente un legame primordiale con le nostre terre. Utilizzate non solo per le relazioni quotidiane e ordinarie, ma anche per funzioni rituali, esoteriche e religiose, ogni una esprime un contenuto di senso che si rivela su tre livelli: quello del suono, quello dell’immagine del segno stesso, quello misterico e spirituale (accessibile solo agli iniziati).

Quanto alla società nanica, alla sua struttura e ai principi sui quali si fonda, occorre anzitutto fissare il nucleo di quelli che sono i valori cardine della loro psicologia, individuale e collettiva: l’età (che porta con sé la saggezza); la ricchezza (in quanto testimonianza di capacità personali e strumento per esprimere la propria generosità a chi lo merita); l’abilità (frutto dell’esperienza) e la reputazione (figlia della lealtà, dell’onestà e della sacralità della parola data). Chi possiede queste virtù merita il massimo rispetto: lo stesso senso delle tradizioni, pur importante, viene in subordine.

Estremamente orgogliosi (dunque suscettibili e portatori di rancore), i nani sono organizzati in clan familiari, cementati dal sentimento dell’onore; la loro vita, estremamente lunga, è scandita da fasi di crescita ad alcune delle quali sono attribuiti nomi che fanno riferimento alle caratteristiche della barba: dopo infanzia, gioventù e età adulta, abbiamo gli status di “Barba Fitta” (ai 70 anni), di “Barba Lunga” (ai 120), di anziano (ai 150), di “Barba Grande” (ultrabicentenari) e per ultima la rara condizione di “Antenati Viventi” (spettante ai pochi ultraquadricentenari).

Altro capitolo, la dieta. Il loro fabbisogno alimentare è simile a quello degli uomini. Tanto raccoglitori e coltivatori (quindi consumatori di frutta, vegetali e granaglie), quanto allevatori e cacciatori (e perciò anche carnivori), i nani sono alacri mietitori di cereali: di grano, dunque, e d’orzo, che impiegano in maggioranza per cuocere pane e, naturalmente, per produrre birra. Prepararla è più che un’arte: ed essa stessa è più che una semplice bevanda. Ogni insediamento, di qualunque dimensione, ha un brewmaster: ed è un onore che spetta di solito ai più anziani; perché nelle sue mani è riposta la responsabilità di poter dissetarsi (anzi, nutrirsi) con birra di qualità: e da questa condizione dipende la salute di tutta la collettività.

Infine, tornando all’organizzazione sociale, trasversale alla suddivisione in cellule parentali (i clan) è quella, di ogni comunità nanica, in ciò che potremmo definire “ordini professionali”: vale a dire in associazioni nelle quali si riuniscono tutti coloro che praticano uno stesso mestiere, una stessa arte o una stessa attività. Così, fra le altre, abbiamo la gilda degli ingegneri, degli artigiani “forgia-rune”, dei gioiellieri e ovviamente… la Gilda Dei Nani Birrai.